“Ogni uomo è fatto in un modo diverso, dico nella sua struttura fisica. È fatto in un modo diverso anche nella sua combinazione spirituale. Quindi tutti gli uomini sono a loro modo anormali. Tutti gli uomini sono, in un certo senso, in contrasto con la natura.”
Queste le parole di Giuseppe Ungaretti nel 1965: che cos’è, oggi, alle soglie del 2020, la diversità? Che senso ha, oggi, parlare di Inclusion in ambito organizzativo? Qual è il legame tra Diversity e Inclusion e perché tale connessione è diventata imprescindibile per le aziende che vogliono crescere?
La diversità
Diversità è l’insieme delle caratteristiche di chi è percepito come “Di-verso”, cioè che diverte, “si volge altrove, si allontana”.
Ma da cosa, esattamente, la diversità di-verte? Chi stabilisce ciò che è “normale” e ciò che è “diverso”? Da quale parametro è connotata la “normalità” da cui il diverso si allontana? Il fatto è che normalità e diversità descrivono la stessa cosa, sono parole “diverse ma uguali” per nominare lo stesso concetto: l’unicità, l’originalità, la particolarità, il portato irripetibile e dirompente di ciascun essere umano.
Ogni uomo è fatto in un modo diverso, nella sua struttura fisica quanto nella sua struttura di pensiero. Quindi tutti gli uomini sono a loro modo a-normali, diversi per il fatto stesso di essere individui unici e irripetibili. Non esistono due persone che non siano diverse.
La diversità è l’essenza di ciascun individuo e costituisce, di fatto, la sua normalità. La diversità, oggi come allora, è la normalità dell’essere umano.
E’ normale essere diversi. E’ a-normale non esserlo. E’ disumano non volerlo vedere.
Inclusion e Business
Partendo dall’assunto che la diversità è una ricchezza sociale, culturale ed economica, che la pluralità di sguardo è un arricchimento del patrimonio di pensiero di ciascuno, come fare per trasformare la diversità in un valore con impatto positivo sui singoli individui e sull’intera azienda?
Prima di tutto, scardinando il pericoloso pattern mentale secondo cui l’inclusione sia un modo riduttivo e buonista per parlare in maniera vaga e stereotipata di una “cultura dell’accoglienza”: la pratica dell’inclusione non è buonismo, è una questione di business. Parlarne e trovare le modalità per agirla nella quotidianità significa contribuire a creare una nuova cultura organizzativa, che si fonda su sostenibilità e innovazione; significa creare le condizioni per portare dentro e far valere i talenti, in modo che i contributi e le idee di ciascuno possano esplodere in tutta la loro peculiarità. E questo per un obiettivo principale: chi si sente accettato, accolto, riconosciuto per le sue qualità e caratteristiche, valorizzato per ciò che è e ciò che porta e stimolato a mettere a frutto il suo potenziale, lavora meglio, rende di più, è più motivato a mantenere alto il livello performativo.
La scelta coraggiosa di includere
Gli impatti positivi di una mentalità e di uno stile di leadership inclusiva sono innegabili. E allora perché c’è ancora così tanto bisogno di parlarne?
La diversità è un dato di fatto, esiste in natura e non possiamo fingere che non ci sia, perché sarebbe come negare la natura stessa. La diversità non è una scelta. L’inclusione, però, è una scelta: è la volontà di gestire tale dato di realtà in modo da creare valore nel gruppo e nel complesso organizzativo. E come ogni processo decisionale, significa schierarsi, significa scegliere cosa “tagliare via”, significa avere il coraggio di mettere in discussione lo status quo, la cultura dominante.
Significa avere il coraggio di rompere l’alibi del “Si è sempre fatto così” per chiedersi “Cosa possiamo fare di diverso, insieme, da domani”?
Martina Grotto
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